Mad Men 6×07: la recensione
“Man With a Plan“, scritto da Semi Chellas e Matthew Weiner, vede John Slattery, alias Roger Sterling, alla regia: e forse non è un caso se l’episodio ha toni più tendenti alla commedia che al dramma, nonostante le situazioni presentate non siano affatto leggere. Mentre il matrimonio professionale tra Don Draper e Ted Chaough prende il via con qualche scossa d’assestamento, l’affaire di Don si arena e Pete deve fare i conti con l’Alzheimer della madre; Joan se la vede con una cisti ovarica e Peggy con il suo mentore Don, da tempo tramutatosi in nemesi.
Dunque, chi è l’uomo che ha un piano? Qualche anno fa avremmo risposto tutti “Benjamin Linus” (indimenticato antagonista in Lost, serie cult anni Duemila). Oggi – sopravvissuti al 2012, sempre più confusi posteri/postumi del postmoderno, i nostri ego precari frammentati fino alla polvere – non c’è una vera risposta a questa domanda, o quanto meno non è Mad Men a volercela servire su un vassoio d’argento.
L’uomo con un piano (ma quale piano, poi?) non è di certo Pete Campbell, anzi; Pete di piani non ne ha proprio più, e assiste al disfacimento di quanto conquistato nel corso del tempo. Prima marito fedifrago, poi amante frustrato, infine uomo solo; ma quello era soltanto l’inizio. L’abbandono da parte della moglie ha innescato la reazione a catena che l’ha inguaiato professionalmente, eppure il destino continua imperterrito a farsi beffe di lui. Quando pare aver toccato il fondo, Pete comincia a scavare: il fratello gli appioppa in affidamento una madre dalla mente sconvolta, bisognosa di cure e di gin tonic, convinta che il marito sia ancora vivo ma impegnato in quelle attività illecite che riempiono invece la vita di Pete, e dotata di un’inclinazione alla piromania che renderà definitivamente impossibile la già grama esistenza del figlio. Mrs Campbell sembra il demone evocato dalla vigliaccheria di cui s’è macchiato Pete e dal suo fallimento umano: incapace di vivere al di là delle apparenze, non è mai stato felice e non ha mai reso felici gli altri; e ora la sua stessa madre lo imprigiona in un girone infernale dove Pete assiste impotente alla progressiva perdita di quel piccolo potere strappato lavorando duramente alla SCDP, luogo in cui la sua presenza sta diventando sempre meno insostituibile.
Forse Peggy Olson un piano ce l’ha ancora, ma non è un uomo; e Joan glielo ricorda immediatamente quando le dà il benvenuto a casa, dove a nessuna delle due donne è mai stato davvero riconosciuto il successo professionale ottenuto in anni di dura battaglia. La fusione tra le due agenzie non le minaccia, ma fa tornare Peggy al via della sua emancipazione morale e gerarchica da Don (e la colloca nel vecchio ufficio di Pete, quello con la famigerata colonna). Il piano di Peggy è semplice: non farsi mettere sotto. E per evitare che ciò accada è disposta a esporsi non soltanto per se stessa, ma anche per Ted Chaough, l’unico capo che lei riconosca e che rischia di diventare vittima del bullismo alcolico di Don. Peggy esagera, Ted sa difendersi da solo e lo dimostra in modo spettacolare caricando un terrorizzato Don Draper sul traballante aeroplano da lui pilotato fino all’incontro con il cliente Mohawk Airlines.
Per tutti loro la storia pare ripetersi. La madre di Pete lo confonde col padre, Peggy deve sorbire ancora una volta le prepotenze di Don, ad Harry Crane viene assegnato l’ufficio peggiore ogni volta che c’è qualche cambiamento e l’ex impiegato Burt Peterson, passato alla Cutler, Gleason and Chaough, viene nuovamente licenziato da Roger in una scena a dir poco esilarante. Ciliegina sulla torta, un altro Kennedy, Bobby, muore trapassato da un proiettile (Pete non crederà alla madre quando l’anziana signora gli annuncerà che “hanno sparato a Kennedy”).
Per Don Draper è diverso. Don vive nella convinzione/desiderio che le cose non cambino mai, che tutto attorno a lui possa muoversi e sussultare per tornare esattamente al punto di partenza, al suo legittimo posto, per l’appunto, attorno a lui, centro unico dell’universo. Per Don più che ripetizione c’è fissità, perché per lui la storia deve stare ferma, deve essere priva di evoluzioni. Don riporterà indietro tutti coloro che si vincoleranno a lui, non tanto in un loop continuo quanto nella ricerca ossessiva dell’immobilità, ovvero della morte. Mortifero Don Draper-Dick Whitman, nato dalla morte del vero Don, da una madre morta di parto, perseguitato da un fratello suicida; Don che in questa stagione fantastica sul trapasso consciamente e inconsciamente.
Gli sceneggiatori hanno iniziato a parodiare Draper e la sua ieraticità già dalla fine della quarta stagione, con l’annuncio del matrimonio con Megan, e hanno proseguito irrispettosamente con l’epocale Zou Bisou Bisou nella première della quinta “A Little Kiss“, per non dare più tregua al personaggio in questa sesta stagione, dove stavolta lo vediamo sconfitto e madido di sudore sull’aereo di Ted; ma soprattutto assistiamo all’imbarazzante tentativo di relazione sadomaso con Sylvia Rosen. In “Man With a Plan” Don rinchiude Sylvia in una stanza d’albergo con l’intenzione di farne la sua schiava erotica; il gioco, alquanto didascalico, funziona sì e no. Sylvia è troppo perplessa davanti alla richiesta di gattonare sul pavimento per eseguire con efficienza l’ordine; si eccita quando Don le impartisce comandi meno umilianti, ma si stufa presto e probabilmente non gradisce affatto la perversa requisizione del libro che sta leggendo (The Last Picture Show, guarda caso, il romanzo da cui Peter Bogdanovich aveva tratto l’omonimo film nel 1966, libro che Don cerca – ridicolmente – di leggere sull’aeroplano guidato da Ted). Ma la vera disfatta arriva quando Sylvia, in quattro e quattr’otto, ribalta i ruoli interrompendo non solo il gioco ma anche la loro relazione; lo fa raccontandogli di un sogno dove Sylvia va al funerale di Don, per poi riunirsi gioiosamente al marito Arnie, dichiarandogli di essere finalmente tornata a casa. L’interpretazione, non tanto freudiana, che ne dà Don è “Significa che ti sono mancato”. A questa battuta, inglorioso epic fail draperiano, segue un momento di sospensione in cui il pubblico tutto si ferma e pensa la stessa cosa, espressa con un certo garbo da Sylvia: “No. Significa che è il momento di andare davvero a casa”. Ed è così che Sylvia Rosen, apparentemente fragile come una porcellana ma dall’anima di ghisa, lo trascina fuori dalla camera d’hotel per ricondurlo all’ovile, dove il fantasma di Megan lo attende piangendo la morte di Robert Kennedy.
L’uomo con un piano non è Don Draper. Secondo Joan è Bob Benson. Bob, qui protagonista della sua più lunga interazione con un altro personaggio, soccorre Joan, chiusa nel suo ufficio in preda ad atroci dolori addominali, e non solo l’accompagna in ospedale, ma riesce abilmente a trarre in inganno l’infermiera responsabile del pronto soccorso e a far visitare Joan prima degli altri pazienti. Col sorriso eternamente stampato sull’adorabile volto, la va a trovare a casa facendo un’ottima impressione alla di lei madre. Joan le spiega che Bob sta solamente cercando di difendere il proprio posto di lavoro durante la fusione, e che le sue smodate gentilezze sono parte di una strategia; ma quando verrà il momento di licenziarlo sarà proprio Joan a salvarlo, supportata da un Pete probabilmente grato per la sollecitudine con cui Bob lo accompagna nelle case chiuse.
“Chi è Bob?”, si domandavano gli spettatori di Twin Peaks nel 1990. Le teorie fioccano anche per Mad Men (agente segreto, giornalista d’inchiesta, figlio perduto, viaggiatore temporale, Satana); teniamo però in considerazione l’abbondanza di false anticipazioni e red herrings a cui ci ha abituati questo show, e la risoluzione spesso imprevedibile delle sue sottotrame. Insomma, nulla vieta a Bob di finire mutilato da un’improbabile falciatrice come il Guy McKendrick del memorabile “A Guy Walks Into an Advertising Agency” della terza stagione.
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