L’uomo con i pugni di ferro: la recensione
Un Django zen figlio della contaminazione culturale
L’uomo con i pugni di ferro è un film scritto, diretto e interpretato da RZA. Così la sinossi ufficiale. A caccia di un favoloso tesoro, una banda di guerrieri, assassini e un soldato inglese rinnegato giungono fino a un villaggio della Cina feudale, dove un umile fabbro cerca di difendere se stesso e gli abitanti del villaggio.
Al suo esordio alla regia, il rapper RZA, già leader dei Wu-Tang Clan e appassionato di cultura orientale, porta a compimento quel percorso iniziato anni fa con le colonne sonore di Ghost Dog – Il codice del Samurai e Kill Bill e proseguito con l’interpretazione del maestro ninja in G.I. Joe – La vendetta, dando vita a un ambizioso, iperviolento ma poco divertente film di arti marziali, debitore, nello stile e nelle tematiche, del cinema di Quentin Tarantino, che, non a caso, ne è produttore esecutivo; inizialmente era anche previsto un legame di trama – poi eliminato – fra questo film e Django Unchained, a cui somiglia nel delineare una figura di eroe di colore alle prese con un mondo che non gli appartiene.
Nell’affrontare il suo genere cinematografico preferito, RZA sembra ispirarsi fin dai titoli, con le scritte in cinese sui fermi immagine, al cinema di kung fu e wuxiapian di Hong Kong classico, quello prodotto dagli Shaw Brothers, con le sue ricostruzioni d’epoca di cartapesta e i duelli iperacrobatici che ignorano la fisica, omaggiato con la presenza dell’attore Gordon Liu, che fu protagonista in gioventù de La 36esima camera dello Shaolin (qui nel ruolo dell’abate del tempio) e con la sequenza della battaglia nella stanza degli specchi, presa direttamente da I tre dell’operazione Drago (e a sua volta ispirata a La signora di Shangai di Orson Welles); ma anche agli anime giapponesi, per la natura dichiaratamente fantastica di alcuni personaggi e relative tecniche di lotta, allo splatter occidentale (in un’accezione molto tarantiniana) e alla blaxploitation americana, alla quale rinviano la sequenza del background del protagonista (con un cameo di Pam Grier nel ruolo della madre) e un’anacronistica colonna sonora rap (composta in prevalenza dallo stesso regista) in sottofondo a combattimenti all’arma bianca.
Un cinema, dunque, figlio della contaminazione culturale, abbastanza ricercato sul piano della regia, molto virtuosistica (come nella battaglia finale, in cui si sprecano l’uso della slow motion e dello split screen), ma al tempo stesso raffazzonato su quello della sceneggiatura. Se, da una parte, risulta infatti apprezzabile, in tempi di abuso della tecnologia digitale, la scelta di affidarsi, per le scene d’azione, alle coreografie acrobatiche del veterano Corey Yuen (che raggiungono la perfezione estetica di un balletto nella sequenza dei Killer Gemini, gemelli assassini specializzati in tecniche di coppia, impersonati da Grace Huang e Andrew Lin) e, per gli effetti speciali, agli esperti del makeup horror Greg Nicotero e Howard Berger, dall’altra il film soffre di una costruzione narrativa decisamente lineare e in alcuni passaggi molto debole, nonché di una caratterizzazione dei personaggi non per tutti approfondita e con poche sfumature.
Il protagonista, un Django zen e non del tutto unchained – ruolo che RZA si cuce addosso, dimostrando capacità recitative abbastanza limitate, con una prova monocorde – da solo non regge lo spettacolo. A soccorrerlo pensano un Russell Crowe mai così corpulento ma in gran forma gigionesca, divertente nella parte di un mentore vizioso ma saggio (quasi un King Schultz strafatto di oppio) e una Lucy Liu ancora molto affascinante e per la quale gli anni sembrano non essere trascorsi dai tempi di Kill Bill, rispetto al quale replica il personaggio della criminale spietata e calcolatrice, ma con una certa nobiltà di fondo. Se Jamie Chung (l’interesse amoroso del protagonista) si attiene allo stereotipo dell’eroina tragica orientale, segnata da un destino crudele, e Rick Yune (il guerriero Zen Yi, alias X-Blade) si ricorda soltanto per le tecniche di combattimento, più interessanti risultano i cattivi: non tanto il capo del Clan del Leone, per il quale viene ripescato Byron Mann (noto come il Ryu – pronunciato: raiu – dello Street Fighter con Van Damme), quanto il grottesco uomo d’ottone impersonato, con una certa autoironia, dal wrestler Dave Bautista (già scritturato per il ruolo di Drax nei Guardians of the Galaxy), mostro inarrestabile e degno dei nemici di Ken il Guerriero (serie alla quale sembra richiamarsi il fumettistico e ben poco marziale duello finale).
Distribuito in Italia con grosso ritardo, L’uomo con i pugni di ferro rilegge il kung fu con lo stesso sguardo pop, giocherellone e un po’ superficiale, per quanto culturalmente rispettoso, dimostrato quarant’anni fa da Lee Scratch Perry nel suo disco ispirato al cinema di Bruce Lee, Kung Fu Meets the Dragon. In quel caso, il drago rappresenta la concezione occidentale, mitica quanto vaga e tipicamente anni Settanta, della filosofia alla base delle arti marziali.
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Antonio M. | ||
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