Marley: la recensione
Un affresco potentissimo su uno dei maggiori geni musicali del secolo
Marley è un documentario del 2012 diretto da Kevin MacDonald e incentrato “sulla vita, sulla musica e sull’eredità di Bob Marley“: dall’adolescenza nel ghetto di Trenchtown agli esordi come musicista nei Wailers, fino al trionfo come profeta della musica reggae e della religione rastafariana.
Presentato al Festival di Berlino nel 2012 e distribuito nelle sale italiane per un solo giorno da Lucky Red, Marley rappresenta, senza ombra di dubbio, uno dei più validi esempi di documentario musicale, sottogenere tornato agli antichi splendori nell’ultimo decennio grazie a cineasti come Martin Scorsese.
Nel delineare la parabola esistenziale e artistica di Bob Marley (1945-1981), il regista Kevin MacDonald – già autore di un convincente ritratto di leader del Terzo Mondo quale il crudele Idi Amin de L’ultimo re di Scozia – parte dal piccolo villaggio della campagna giamaicana in cui nacque Bob per seguirne, passo dopo passo, la biografia, alternando rari filmati di repertorio, esibizioni dal vivo e numerose interviste a familiari (la vedova Rita e due figli, Ziggy e Cedella), parenti, amici, amanti, collaboratori e pittoreschi personaggi, con una colonna sonora praticamente ininterrotta che dà spazio, in ordine cronologico, a tutte le principali canzoni dell’artista.
Dimostrando straordinarie capacità di narratore, Kevin MacDonald si sofferma tanto sull’evoluzione musicale di Marley – dal trio ska The Wailers, a fianco di Peter Tosh e Bunny Livingston, al rocksteady con Lee Perry, fino alla formazione della nuova band Bob Marley and the Wailers, la più importante del mondo nel genere reggae, di cui divenne il leader incontrastato – quanto sui principali aspetti ed eventi che scandirono la sua breve ma intensa vita: l’infanzia segnata dalla povertà, lo sfruttamento da parte dei discografici, la presa di coscienza terzomondista, la conversione al rastafarianesimo, il consumo di marijuana, i rapporti con la famiglia, l’impegno politico, la malattia e la morte prematura, a soli 36 anni.
Il ritratto che emerge dal documentario è quello di un uomo dalla natura quasi messianica, ruolo che fin dalla nascita – lui, mulatto figlio di un bianco sessantenne e di una nera sedicenne, ma cresciuto soltanto da quest’ultima nella miseria più estrema – sembrava predestinato a incarnare, in un mondo ancora martoriato dai residui di secoli di sfruttamento colonialista e sotto il quale covavano focolai di nazionalismo violento. Il film si dimostra, in questo senso, un documento sociologico estremamente attendibile, per la puntualità e l’efficacia con cui descrive la realtà della Giamaica degli anni Sessanta e Settanta: un Paese giovane e sbandato, completamente alla mercé di gang armate di criminali (neri) al soldo dei due leader politici rivali (bianchi) dell’isola, a loro volta manovrati dal blocco occidentale e da quello comunista. Il documentario mostra con efficacia l’impegno di Bob Marley nel combattere la violenza politica del Paese, a rischio della sua stessa vita, componendo canzoni che inneggiavano alla pace fra schieramenti diversi (memorabile la sequenza dell’esibizione allo One Love Peace Concert del 1978, in cui Bob, sopravvissuto a un attentato, costrinse i due leader a salire sul palco e a stringersi la mano) e, più in generale, all’armonia fra i popoli africani (altrettanto notevole l’esibizione durante la cerimonia per l’indipendenza dello Zimbabwe, 1980, che fu interrotta da un lancio di fumogeni e poi ripresa per volere dello stesso Marley).
Altrettanto apprezzabile è la scelta (che sarebbe stato facile disattendere, vista la collaborazione attiva al progetto della stessa famiglia del cantante) di non fare di Bob un santino, descrivendo al contrario anche gli aspetti più controversi della sua personalità: in primis il rapporto con le donne, all’insegna di una poligamia esibita e un po’ maschilista, in linea con i dettami della religione rastafariana (come emerge dalle testimonianze della vedova Rita e dell’amante Cindy Breakspeare, Miss Mondo 1976, che condivisero per anni la relazione con Bob), ma anche una paternità vissuta con durezza (come rivela Ziggy, primogenito di tredici figli nati da sette relazioni diverse), rapporti professionali risolti in modo brusco per mera diversità di vedute (come testimonia l’amico Bunny Livingston, spassoso e istrionico durante l’intervista) o con metodi da gangster (come ricorda l’amico e manager, nonché ex calciatore professionista, Alan Skill Cole), e scelte dettate dalla mera ricerca del successo (come quando Marley accettò di aprire il concerto dei Commodores per farsi conoscere dal pubblico afroamericano).
Nell’ultima parte, in cui viene mostrato il calvario del cantante devastato dalla malattia, la parabola di Bob trova la sua degna conclusione all’insegna del coinvolgimento emotivo (strazianti l’esibizione sul palco con il cancro in uno stadio avanzato e la testimonianza dell’infermiera che lo assistette nei suoi ultimi mesi di vita), e di una stoica catarsi, che trova conferma nella ripresa dei funerali, con migliaia di persone in pellegrinaggio quasi religioso per le affollatissime strade di Kingston.
In sintesi, Marley è un affresco potentissimo su uno dei più importanti geni musicali del ventesimo secolo, la cui influenza artistica e politica travalica la brevità della sua esistenza e, ancor oggi, vive in tutto il mondo (come affermano i titoli di coda), e per cui le quasi due ore e mezza di documentario bastano appena. Un biopic appassionante ed esauriente su un personaggio estremamente complesso, ben al di là della superficialità con la quale la sua figura, nel bene e nel male, viene spesso giudicata.
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