Game of Thrones 3×03 – 3×04: la recensione
Game of Thrones entra nel vivo dell’azione dopo due imponenti episodi introduttivi di riepilogo di posizioni e nuovi assetti politici. In “Walk of Punishment” e “And Now His Watch Is Ended” si dispiegano i primi importanti spargimenti di sangue della stagione, i primi colpi di scena, e un po’ di sano umorismo.
“Walk of Punishment” comincia con un paio di scene eloquenti nel tratteggiare disparità di grandezze e scaramucce di potere. L’episodio ci presenta subito un nuovo carismatico personaggio, Brynden Tully, il Pesce Nero: al funerale di Hoster Tully, il primo gesto di zio Brynden cui assistiamo è il preciso scoccare di una freccia incendiaria per accendere la pira funeraria del fratello, compito di rito precedentemente fallito dal nipote Edmure, fratello di Catelyn. I Tully vengono presentati come una famiglia in preda a dissapori fondati sull’orgoglio e su discutibili capacità strategiche, come è sottolineato dalla ramanzina di Robb a Edmure riguardo alla poco astuta gestione delle recenti campagne di guerra da lui guidate.
Nella sala del Concilio Ristretto di Approdo del Re, invece, si consumano nuovi atti della ridisposizione di equilibri e posizioni di potere: geniale la sfida tra i fratelli Lannister a suon di sguardi di scherno e sedie trascinate rumorosamente per terra. Il dialogo che ne consegue è dominato dall’ironia: si parla del viaggio che Littlefinger si appresta a compiere alla volta di Nido dell’Aquila e della mano di Lysa Arryn “la pazza”, e si finisce per nominare Tyrion Maestro del Conio in luogo di Baelish, una punizione, come preannuncia il titolo della puntata, più che un onore, considerando l’utilizzo smodato e senza pensieri che il Folletto ha sempre potuto fare del denaro.
Ma Cersei ha altre gatte da pelare: già ha notato le straordinarie capacità manipolatorie di Margaery, la quale non solo continua a sedurre Joffrey con la sua brillante sceneggiata di entusiasmo per le sue perversioni, ma riesce persino nell’impresa impossibile di farlo acclamare dal suo popolo (per lo meno a gesti, e mentre è al suo fianco, ovviamente).
Nell’episodio 4, “And Now His Watch Is Ended”, rivediamo con piacere anche nonna Olenna Tyrell, che si distingue ancora per acume e senso dell’umorismo, sia quando si lamenta della stupidità del motto della propria casata «Growing strong», sia quando accoglie l’interesse di Varys col quale acconsente a tessere una tela di salvataggio per la povera Sansa, che sta per cadere nelle grinfie di Baelish. Nello stesso episodio Varys è oltretutto protagonista di uno dei suoi splendidi dialoghi, o meglio monologhi, con Tyrion, durante il quale racconta il retroscena della propria evirazione e il sottile piacere di una lunghissima e meditata vendetta.
Intanto Arya e Gendry hanno lasciato la locanda in compagnia della Fratellanza senza Vessilli e del Mastino imprigionato, e insieme a loro abbiamo salutato con un po’ di dispiacere Hot Pie (e apprezzato la pagnotta a forma di lupo), lasciato come “mancia” alla locanda in qualità di apprendista panettiere. Arya e gli altri sono poi condotti nel misterioso luogo di ritrovo della Fratellanza, che si rivela una sorta di compagine senza padroni che ha apparentemente molto più a cuore dei sovrani le sorti dei popolani e dei contadini dei Sette Regni; al cospetto del leader Beric Dondarrion vengono poi stabilite le colpe del Mastino, e la modalità del processo, via duello, come fu per Tyrion a Nido dell’Aquila nella prima stagione.
Subisce una notevole accelerazione la vicenda di Jaime e Brienne, ormai una delle coppie più improbabili e intriganti della serie. Mentre proseguono il loro viaggio da prigionieri, Jaime dimostra addirittura sincera preoccupazione per Brienne, prima mettendola in guardia su quello che potrebbe succederle una volta fermati, poi con un aiuto concreto che pagherà nel peggiore dei modi: quella che probabilmente è la prima azione disinteressata della vita di Jaime Lannister gli costa la mano destra, la mano della spada. Inutile dire che le conseguenze dell’evento sull’identità del personaggio saranno devastanti: lo Sterminatore di Re, erede di Tywin, figlio forte e letale ora ridotto a “storpio” né più né meno del fratello nano. Audace e riuscita la scelta dell’accostamento della scena shock dell’amputazione, che chiude il terzo episodio, con la versione punk-rock di The Bear and the Maiden Fair sui titoli di coda. Ma la mano mozzata non basta, e nell’episodio successivo Jaime è ancora vittima dello scherno e della gratuita crudeltà degli aguzzini. Solo le parole di Brienne riusciranno forse a scuoterlo dal suo stato di rassegnazione alla morte.
Anche Theon si trova imprigionato nel ruolo di burattino da torturare e schernire a piacimento: i lettori della saga avranno già riconosciuto l’identità del misterioso e perverso scudiero che si guadagna la fiducia di Greyjoy liberandolo dai ceppi solo per poi riportarcelo da capo una volta ottenute informazioni preziose circa il vero destino di Bran e Rickon. Stranamente toccante, dal momento che è di un Greyjoy che stiamo parlando, il monologo in cui il povero Theon ripercorre le sue scelte passando dall’abituale tono arrogante e pieno di sé all’amara constatazione che il suo vero padre è quello morto sulla piazza di Baelor: è la dolorosa presa di coscienza di non averne fatta una giusta da quando ha scelto di tradire gli Stark.
Oltre la barriera, mentre Jon Snow, Mance Ryder e i Bruti si imbattono in macabri regali lasciati dagli Estranei, il Vecchio Orso e gli altri Corvi sono costretti ad approfittare nuovamente dell’”ospitalità” del disgustoso Craster e delle sue mogli-figlie. La vicenda avrà la sua sanguinaria risoluzione in “And Now His Watch Is Ended”: la watch terminata cui fa riferimento il titolo è proprio quella di Jeor Mormont, che cade vittima dell’esasperazione dei suoi Guardiani, tramutata in rabbia cieca e rivolta contro di lui e contro l’ospite. Se della fine violenta di Craster nessuno può sinceramente dispiacersi, la morte del Vecchio Orso è una di quelle scene strazianti nella loro crudeltà e rapidità, alle quali, nonostante Martin ce la metta tutta, è difficile abituarsi. Nel parapiglia generale Sam ne approfitta per portare via Gilly e il suo neonato maschio (dunque secondo la legge di Craster destinato come tributo agli Estranei), anche se il gelo e i mostri non renderanno semplice la loro fuga.
Le cose si fanno maledettamente serie anche in quel di Astapor, sede della resa dei conti tra Daenerys, l’odioso Kraznys e le discutibili leggi della città, di cui la Targaryen ha avuto ulteriori assaggi vedendo coi suoi occhi l’impietoso destino degli schiavi colpevoli di tentare la fuga. Così, dopo aver tenuto fede alla promessa di un drago in cambio dell’intero esercito degli Immacolati, la Khaleesi scopre infine le sue reali intenzioni, e di fronte allo sgomento di Ser Barristan e Ser Jorah comanda gli Immacolati contro i loro padroni e aguzzini e li libera dal giogo della schiavitù. Gli Immacolati ringrazieranno unendosi a lei spontaneamente, mentre Kraznys assaggerà le conseguenze della parola d’ordine che nessuno vorrebbe mai sentire: “dracarys“. Si tratta indubbiamente della sequenza più spettacolare ed entusiasmante, dal climax costruito alla perfezione alla bravura di Emilia Clarke, al piacere di vedere il draghetto Drogon in azione. Una risoluzione prevedibile? Forse sì, ma il risultato fa dimenticare qualche ingenuità (e anche le lungaggini delle altre storyline), confermando la coerenza di Daenerys (fin dalla prima stagione allergica ad ogni sorta di coercizione) oltre a consacrarla nuovamente come uno dei personaggi più esaltanti della saga.
Game of Thrones continua a scontare in parte la parcellizzazione in segmenti, che nei casi peggiori si risolve in screentime regalato a situazioni poco rilevanti nell’immediato (alcuni dialoghi con Shae, i sogni di Bran, la noiosa figura della moglie di Robb, Talisa) o ad altre meramente funzionali a non smarrire il filo delle storyline (Melisandre che lascia la Roccia del Drago, Jon Snow spedito a scalare la barriera per appostarsi al Castello Nero). Ma in questi episodi la serie riesce meglio che nei due precedenti ad alternare momenti preparatori, dialoghi brillanti, scene WTF (qualcuno ha detto Podrick?) e belle sequenze d’azione: ora però ne vogliamo ancora, di azione e soprattutto di draghi.
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Scritto da Chiara Checcaglini.
Khaleesi sempre più dracarysmatica! 🙂