Nina: la recensione
Menzione speciale al Bif&st 2013, l’esordio nel lungometraggio di Elisa Fuksas, Nina, si distingue non per la trama (esile e liquida come la china che la ragazza usa per esercitarsi con la scrittura cinese) ma per l’abilità della regista di incastonare la figura umana nella struttura scenografica di un’architettura. Quasi un lavoro artigiano per la sua puntualità che non è mero esercizio estetizzante, e che, al contrario, veicola con efficacia “la storia di una giovane donna incapace di sentire”.
Nella Roma deserta di Agosto, fra le architetture geometriche e razionali dell’Eur, si aggira Nina, che si è appena trasferita nell’appartamento della famiglia di un amico per badare al loro cane, Omero. Qui Nina fa amicizia con Ettore, il bambino custode del palazzo, saggio come un adulto, che diventa una sorta di consigliere. Anche più del professor De Luca, il sinologo napoletano che, fra un caffè e una lezione di scrittura di ideogrammi, elargisce i suoi consigli sotto forma di oracoli alla giovane apprendista. Ma sarà l’incontro casuale con lo stralunato violoncellista Fabrizio e i successivi pedinamenti reciproci a portare alla luce il profondo vuoto della ragazza e a renderla finalmente consapevole.
Se Nina è una ragazza incapace di creare rapporti duraturi, difficile è anche la sua relazione con lo spazio che la circonda. Attratta dal fuoricampo, una soglia e un rifugio per tirarsi fuori dal gioco, dalla sfida, sfugge al primo piano, a un’immagine che possa catturare il vuoto che percepisce dentro di sé, ma che ancora non può affrontare. La regista la pone spesso ai margini dell’inquadratura oppure ce la mostra “schiacciata” da un elemento di arredo (porte, mobili) o architettonico (un pilastro, una colonna). Nina è oppressa da un senso di insoddisfazione e di noia che la porta a fare cose inutili: la vita così si riempie e la coscienza si scarica. Quando Nina è con gli altri, immersa in un pubblico, la Fuksas incornicia il corpo florido di Diane Fleri in una struttura ordinata e statica come i palazzi dell’Eur. Le inquadrature, allora, diventano dei quadri simmetrici, perfettamente centrati. L’attrazione per ciò che è esterno al campo, talvolta, contagia anche gli altri elementi del film: nella sala del concerto, il crocifisso appeso al muro si è spostato dal centro, dove è ancora visibile l’alone, sulla destra. È fuori posto come Nina, che si riempie la vita di corse di jogging e scorpacciate di torte, di lezioni di canto (impartite) e di lezioni di ideogrammi (seguite), pur di non affrontare la realtà e un futuro che fa paura. A spaventarla è quello stesso futuro che si fa predire dai dolcetti della fortuna che gli offre il professor De Luca, incellofanato in un cubo di luce azzurra e fredda come il manto della sua statua della Vergine. Il futuro che è vuoto non solo di risposte, ma di aspettative: Nina, un’inedita e sorprendente Diane Fleri, non sa nemmeno cosa desiderare. Come Dorabella di “Così fan tutte”, può solo percepire le “smanie implacabili” e soffocarle in un acquario di occupazioni futili. Il vuoto assordante di persone e di vita della città abbandonata evidenzia la condizione di stallo e di spaesamento della protagonista. Una condizione che si palesa troppo tardi allo spettatore, che inizialmente avverte il personaggio di Nina come troppo piatto e poco complesso, una figurina ben vestita (grazie ai costumi scelti con intelligenza e gusto da Grazia Colombini), una ragazza alternativa dalle passioni eccentriche e l’esistenza noiosa come quella dei pesciolini nell’acquario del salone, o del porcellino d’India rassegnato a una vita scandita dai giri di ruota. Ecco, allora, che la regia evidente della Fuksas, le carrellate che svelano a precedere, il tableau sapientemente composto, l’universo surreale e “felliniano” dell’Eur, il viaggio in Vespa sulla tangenziale da San Giovanni all’Eur, omaggio a Caro diario, rischiano di far apparire tutto come un grande gioco autoreferenziale.
La visione scenograficamente studiata della Fuksas, invece, non è sterile quanto rischia di sembrare e a tratti di essere, ma ci restituisce un mondo visionario e grottesco abitato da curiosi personaggi e da una giovane in cerca della propria dimensione, del proprio spazio interiore, prima che esteriore, perché è la forma, l’architettura di noi stessi, una volta riconosciuta, a renderci felici.
Scritto da Vera Santillo.
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