Detachment – Il Distacco: la recensione
Detachment – Il Distacco: uno sguardo partecipe sul degrado della scuola statunitense. Ad aprire il film del regista britannico Tony Kaye è una sequenza di volti in bianco e nero. Sono i volti di alcuni insegnanti americani che spiegano cosa li abbia spinti ad intraprendere uno dei mestieri più difficili e meno apprezzati del mondo. Sono volti stanchi, disincantati, eppure potenti, che portano con sè i segni delle sconfitte, delle umiliazioni, delle speranze, delle illusioni a cui è condannata la vita di ogni insegnante. Ai volti reali di chi ha speso una vita intera fra i banchi di scuola, succede il volto di Adrien Brody, questo non meno reale e penetrante degli altri. Questo volto e le sue parole di riscatto tornano regolarmente durante il film e rappresentano la voce di tutti i volti della sequenza iniziale, di tutti gli insegnanti d’America e del Mondo che ogni giorno devono confrontarsi con una gioventù che va in fumo, con generazioni di uomini violentatori e donne oggetto.
È il mondo a cui il protagonista, Henry Barthes, tenta di opporre il proprio distacco, fallendo miseramente. Ci prova ad essere distante Henry, eppure non può fare a meno di dare ospitalità e protezione a Erica, una prostituta minorenne incontrata sulla strada di casa. Henry è un uomo dal passato oscuro che cambia spesso scuola, non per negligenza, ma perché è un supplente. Perché lui non è fatto per le cose che durano. Nella nuova scuola assiste al solito, banale orrore registrato in tutti gli istituti da cui è passato: giovani che non hanno ambizioni e che usano la violenza, verbale e fisica, come unico modo per relazionarsi all’altro. Eppure ogni tanto qualcuno emerge dal mucchio. È il caso di Meredith, una ragazza sveglia e creativa che ha qualche chilo di troppo e un padre invisibile che nel film si riduce a un puro, offensivo e sprezzante rimprovero. Ma è appunto l’incontro con Erica a rompere gli argini di un distacco che, come anticipato dalle parole di Albert Camus in apertura del film, è un allontanamento da se stessi più che dagli altri.
E’ un distacco raccontato attraverso la partecipazione e il coinvolgimento quello di Tony Kaye che punta allo stomaco dello spettatore senza edulcorare la nettezza e la drammaticità di immagini e situazioni crude e violente. A partire dal passato di Henry, un ottimo Adrien Brody, macchiato dal sospetto di un abuso e segnato dal dramma del suicidio. Un dramma e un passato che il regista ha voluto farci avvertire da subito, anzi che ci ha mostrato sin dalle prime sequenze, impedendo uno svelamento graduale e più profondo del personaggio di Henry. Così giungiamo, senza il piacere che ogni epifania comporta, alle radici della rabbia oscura e profonda del protagonista. La stessa rabbia che provano i suoi studenti e che trova sfogo nell’insulto dei compagni, nei vestiti succinti e volgari di una ragazza, nell’assassinio di un gatto chiuso in uno zaino e preso a martellate. Sono immagini rapide e di una nettezza senza accenti melodrammatici. E’ la banalità del male, è la realtà di una scuola americana mostrata nella sua crudezza.
E forse è proprio alla fame di realtà del regista che si deve imputatare la scelta di uno stile di ripresa concitato fatto di zoomate intollerabili come la realtà che catturano, di un montaggio frenetico e a tratti troppo vicino al videoclip. Un mix di stili dove al genere drammatico si aggiunge la stop-motion, i video musicali, il documentario, l’inchiesta (si pensi alle interviste agli insegnanti della sequenza iniziale). Un mix che fa perdere in compattezza e alimenta la dispersione, la liquidità di un collage di pezzi a sé stanti che non si amalgamano completamente gli uni agli altri. Disseminazione favorita dal montaggio rapido per cui tutto ha la velocità e l’autosufficienza di un flash, di una foto (come quelle scattate da Meredith), di un’immagine intesa in senso Eizensteiniano di cellula che acquista senso solo se messa in relazione ad altre immagini. Ecco, la sensazione è che manchi un discorso univoco e che tutto si riduca a un collage dove stanno insieme cose che non si fondono. Come i mondi rivali degli studenti e degli insegnanti. Questi ultimi sembrano i veri perdenti, dei condannati alla disfatta e che nonostante ciò continuano a combattere la propria battaglia quotidiana per salvare anche solo una delle poche Meredith rimaste, per dare a tutti la possibilità di essere se stessi e non delle copie sterili del modello proposto dai media.
Un universo, quello dei docenti, per il quale sembra esistere solo la scuola. E’ come se il lavoro, divenuto missione, avesse risucchiato le energie e la vita di queste persone che, dopo aver preso insulti, rischiato il pestaggio e cercato di trasmettere qualcosa, vengono colti dal terrore di una vita vuota, di un venerdì sera senza nulla da fare, di una casa fredda e una moglie incollata alla tv che non si accorge nemmeno del tuo ritorno. E’ il ritratto di un’umanità pietosa, sconfitta, umiliata, calpestata ogni giorno senza mai ricevere un “grazie”. E’ il ritratto di una società che non è solo quella americana. E forse è proprio questa volontà di allargare l’orizzonte, la sfida di analizzare e di concentrare in 100 minuti la complessità dell’attuale condizione della società occidentale, il punto di forza e al contempo di debolezza de “Il distacco”.
Scritto da Vera Santillo.
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Chiara C. | ||
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