C’era una volta… Cannes: “Motel Woodstock”
1969. Elliot Tiber (Demetri Martin – The Rocker) è un giovane decoratore d’interni ebreo che, tornato dal Greenwich Village, ha appena ottenuto dalla camera di commercio il permesso per organizzare un piccolo festival musicale nella natia contea di Catskill, dove i genitori Jake (Henry Goodman – Il maledetto United) e Sonia (Imelda Staunton – Il segreto di Vera Drake), immigrati dell’Europa dell’Est, gestiscono un vecchio motel, ma stanno per perderlo a causa dei debiti. Quando viene a sapere che la Woodstock Enterprises di Michael Lang (Jonathan Groff – Pretty/Handsome), che sta organizzando un gigantesco concerto con le maggiori stelle della musica, ha appena perso l’autorizzazione per la locazione originale, Elliot offre loro il permesso ottenuto e, come base, il motel di famiglia, nella speranza di sanarne le finanze. Convince poi il suo vicino Max Yasgur (Eugene Levy – American Pie) ad affittargli i 600 acri di cui dispone, anche se al prezzo deciso dallo stesso Yasgur, che ha fiutato l’affare avendo previsto un grande afflusso di persone. Inizia così un grande lavoro di organizzazione, che incontrerà parecchi ostacoli sia nei cavilli burocratici che nei pregiudizi della gente, ma darà vita a quegli indimenticabili tre giorni di pace, amore e musica.
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes nel 2009, e tratto dal romanzo autobiografico di Elliot Tiber Taking Woodstock: A True Story of a Riot, Concert, and a Life, quello che rimane a tutt’oggi l’ultimo film del regista di Taiwan Ang Lee è anche uno dei suoi migliori in assoluto, un affettuoso e sincero omaggio, a quarant’anni del suo svolgimento, a uno dei concerti-simbolo degli anni Sessanta, il Festival di Woodstock, già soggetto dell’eccellente documentario di Michael Wadleigh Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, che vinse l’Oscar nel 1970. In questo caso, abbiamo a che fare con un’opera innovativa perché raccontata dal punto di vista di coloro i quali, pur restando lontani dai riflettori, hanno permesso che quel mitico evento potesse avere luogo e lasciare il segno nella storia: la trama, infatti, si concentra sulle vicissitudini personali e professionali di Elliot e dei suoi collaboratori prima, durante e dopo il concerto, persone di varia estrazione sociale ma accomunate dall’irriducibile determinazione nel perseguire uno scopo comune, che rappresenta per ognuno qualcosa di diverso ma comunque importante.
Il concerto in sé, di cui non si sente nessun pezzo nell’esecuzione originale, resta in sottofondo: per una precisa scelta registica, il palco non si vede mai, così come nessun cantante, né sono state inserite scene di repertorio dell’evento, un po’ come se Lee ritenesse esaustivo in proposito il documentario di Wadleigh e non volesse aggiungere nulla a un’illustrazione così perfetta dell’epoca, che non manca di omaggiare riprendendone la fotografia dai colori pastello, e facendo come lui uso dello split screen in alcune sequenze. Al contrario, la tematica omosessuale, già alla base di alcune opere precedenti del regista taiwanese, acquista centralità nella vicenda: Tiber è stato infatti un attivista per i diritti dei gay nel Greenwich Village, ma teneva nascosto il proprio orientamento sessuale ai genitori. Il Festival di Woodstock diventa così metafora di liberazione sessuale sia per il protagonista, attraverso l’incontro romantico con un prestante tecnico del palcoscenico, sia per i comprimari, con la transessuale Vilma, interpretata con grande ironia da Liev Schreiber, nel ruolo di angelo custode.
Sono numerosi i temi affrontati in quest’opera – il pregiudizio della gente di paese, l’importanza della famiglia, la volontà di realizzare un sogno con tutti i sacrifici che comporta, il ruolo determinante della musica come mezzo di liberazione ma al tempo stesso come collante per unire le diversità – ma mai nessuno in maniera superficiale o stereotipata: al contrario, dietro l’apparente leggerezza di tono, traspare un profondo rispetto verso tutti i personaggi, di cui Lee non ha comunque paura di mostrare le debolezze più sgradevoli. Appaiono quindi fuori luogo le polemiche contro l’ostentata avidità della madre di Elliot e di Max Yasgur, ottusamente intesa da alcuni giornalisti politically correct come una manifestazione di antisemitismo. A rafforzare il contesto storico di fine anni Sessanta, non mancano poi il riferimento alla guerra in Vietnam, con la sottostoria del reduce Billy (Emile Hirsch), sofferente di sindrome post traumatica e trascurato dal fratello maggiore Dan (Jeffrey Dean Morgan), oppositore del Festival, e quello alle droghe come mezzo di superamento delle proprie inibizioni, nella sequenza psichedelica del trip di acido che Elliot si concede in compagnia di una coppia di hippies (Paul Dano e Kelli Garner) e in quella in cui i genitori mangiano per sbaglio biscotti alla marijuana e si lasciano andare a un delirio liberatorio.
Il cast, composto in prevalenza da giovani emergenti e professionisti veterani in grande spolvero, si presta al gioco in maniera egregia, dando vita a personaggi ottimamente riusciti: Demetri Martin è un Elliot Tiber sognatore e quasi timido, cui si contrappone l’imperturbabile e affascinante Michael Lang impersonato da Jonathan Groff, sorta di hippy dalla folta chioma alla Jim Morrison, che va a cavallo come un cowboy e non si lascia scoraggiare da nessuno. Il contrappunto comico non è rappresentato, come ci si sarebbe potuti aspettare, dallo specialista canadese Eugene Levy (un Max Yasgur credibile e realistico), ma da Imelda Staunton, che interpreta la madre taccagna e irascibile di Elliot in maniera assolutamente esilarante, in totale contrapposizione con il più sobrio ma altrettanto riuscito ritratto del padre, mite e comprensivo, offerto da Henry Goodman.
Applaudito alla Croisette, premiato al botteghino con un buon successo, Motel Woodstock è stata una più che degna celebrazione del quarantennale del concerto: peccato, però, che non sia stato distribuito nelle sale in concomitanza con la data dell’evento originale (15-18 agosto), ma dieci giorni dopo.
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