C’era una volta…Berlino: “Radio America”
Piovono pietre sugli Stati Uniti, come sempre, piovono critiche da ogni parte del globo. L’America guerrafondaia, l’America obesa, l’America ignorante, l’America bacchettona che finge di predicare bene per poi razzolare nella parte più lurida del pollaio. Tutto vero, almeno in parte. Ma questa nazione, nata e cresciuta nutrendosi di assurdità e contraddizioni, ha anche un’anima capace di sentimenti profondi, che spesso l’occhio straniero non può (o non vuole) cogliere. A guidarci nell’intimo della grande madre America, a svelarne la quintessenza un po’ eccentrica, ma coinvolgente come i castelli in aria di un bambino, ci pensa un grande, compianto maestro della cinematografica americana e mondiale. Ladies and gentlemen, ecco a voi un perfetto, ineccepibile Robert Altman.
Qualunque sia il vostro livello di competenza in materia, abbiate fiducia e lasciatevi guidare dal maestro, perché uno dei punti di forza di Radio America è proprio la sua struttura basata su diversi registri interpretativi, che ne permettono (almeno) una duplice lettura. Certo, la prima parte potrà destare qualche perplessità sull’esistenza o meno di una trama nel senso proprio del termine, ma nel momento in cui si raggiunge una percezione più chiara del film ci si rende anche conto di essere completamente “hooked”, come direbbero gli americani, rapiti dal fascino di una storia che non è una storia, ma in fondo è tutte le storie. O almeno tutte quelle statunitensi, visto che l’intero film è una pletora di omaggi e riferimenti a pietre miliari della cultura yankee.
Radio America è uno sguardo affettuoso (ma non per questo cieco alle contraddizioni) su quello che si usa definire “Americana”, ovvero l’insieme degli elementi che costituiscono la quintessenza della cultura statunitense – elementi che ritroviamo in abbondanza nella struttura stessa del film, imperniata sulla dimensione della radio e del teatro “basso”, delle forme di spettacolo lontane dalla tragedia classica e legate invece a quello che noi chiameremmo cabaret, al vaudeville, ai side-shows, all’improvvisazione e all’osmosi fra musica (tendenzialmente folk) e umorismo popolare. Il film verte proprio su uno spettacolo radiofonico e segue sin dall’inizio una struttura cara ad un genere “strictly American” come il musical. Intendiamoci, la pellicola di Altman non è un musical in senso stretto, ma è legata all’archetipo del genere non soltanto in virtù della profusione di (folk)songs che riempiono almeno una buona metà del tempo di visione (e ascolto – è proprio il caso di sottolinearlo).
Eredità del musical non sono neppure soltanto le atmosfere e quel filo di buonismo che qualche personaggio si lascia sfuggire ogni tanto (per poi, per altro, essere subito rimbeccato da qualche collega più disincantato). E’ in primis la struttura di fondo a dovere (e volere) rendere un tributo ai classici del genere (The Bandwagon, Golddiggers of 1933, 42nd Street, lo stesso Singin’ In the Rain e il resto dei migliori lavori di Minnelli, Donen, Kelly e compagni): una troupe si trova a dover mettere in scena il suo ultimo spettacolo, fronteggiando avversità generalmente di carattere economico. Metacinema, se vogliamo, o meglio metarappresentazione, che in questo caso riesce a combinare ben tre media diversi, che interagiscono fra loro in un triplo livello comunicativo.
La cinepresa filma in un teatro un cast (stellare) di attori-cantanti, che a loro volta mettono in piedi uno show destinato a raggiungere in tempo reale gli ascoltatori di tutta la nazione, o almeno la popolazione delle “small town” del Midwest. Il tutto riuscendo contemporaneamente a rendere omaggio, pur se en passant e in tono scherzoso, ad uno dei più grandi cantori della cultura americana. Già, perché il film è ambientato a Saint Paul (Minnesota), terra natale dell’intramontabile Francis Scott Fitzgerald. A lui è intitolato il teatro in cui si mette in scena lo show, la sua testa scolpita troneggia nel palco di lusso (ma al personaggio che simboleggia l’etica del dollaro il grande autore sarà necessariamente presentato come “solo uno che scriveva racconti”).
Nel Fitzgerald Theater si esibisce il cast di “A Prairie Home Companion“, uno show basato su un programma radiofonico realmente esistente e condotto da “G.K.” (Garrison Keillor), che nel film interpreta se stesso (oltre ad aver realizzato la sceneggiatura). Mentre nella realtà lo show continua ad essere trasmesso (dopo ben tre decenni), nella finzione lo spettacolo è ormai giunto anche alla sua ultima puntata, poiché la WLT, l’emittente di cui è simbolo e cardine, è stata (s)venduta. Ma la vera trama è data dal mosaico di speranze, emozioni e pathos che si susseguono nel mondo della grande famiglia di questa “backstage comedy”. Lo spettro della chiusura si fa più reale, personificato dall’arrivo del cinico e materialista “axeman”, il tagliatore di teste, cui un perfetto Tommy Lee Jones dona un’imperturbabile maschera profit-oriented; ma nel frattempo l’amore per lo spettacolo spinge i protagonisti ad andare avanti, facendo sì che l’esibizione non sia quella conclusiva, nel rispetto dell’ideale del the-show-must-go-on che caratterizza tanti capolavori americani (ricordo, fra gli altri, una pellicola decisamente sottovalutata come The Cradle Will Rock).
Così sul palco e dietro le quinte si avvicenda un all-star cast che affianca a G.K. il duo country delle sorelle Yolanda e Rhonda Johnson (meravigliosamente interpretate da Meryl Streep e Lily Tomlin, che trasmettono tutta la bonaria presenza scenica di due cantanti concrete, alla mano e nostalgiche al punto giusto); Lola, figlia adolescente di Yolanda, interpretata da una Lindsay Lohan lungi dal futuro ruolo di reginetta del gossip e degli scandali; la coppia di cowboys Dusty e Lefty, interpretati da Woody Harrellson e John C. Reilly, cantanti-barzellettieri un po’ rudi e un po’ buontemponi; e poi ancora altri solisti e musicisti e uno spassosissimo rumorista. Una nota di plauso per tutti i membri della troupe: le riprese sono state realizzate in diretta, mentre il cast (per altro composto in buona parte dalla crew del vero programma) si esibiva dal vivo.
Non sono da meno i personaggi che si muovono principalmente dietro le quinte, anche in virtù della passione di Altman per l’improvvisazione. Danno prova della loro abilità anche attori come Maya Rudolph, che interpreta Molly, la gravida assistente tuttofare, e uno strepitoso Kevin Kline nel ruolo di un ex detective relegato al ruolo di guardia di sicurezza, che riesce ad essere la parodia di se stesso, oltre che dei classici “private eyes”, icone del genere hard-boiled (basti pensare ad Humphrey Bogart nel ruolo di Sam Spade nel Mistero del Falco di John Huston), di cui offre un’eco ironica sin dal nome, Guy Noir (forse traducibile con “il tizio noir”). Sullo sfondo si muove anche una figura misteriosa, l’impenetrabile Virginia Madsen nei panni della “Donna Pericolosa” (così è denominata nei titoli di coda). Preferisco non togliervi il gusto di scoprire il ruolo di questo personaggio, anche perché probabilmente una spiegazione univoca non porterebbe alcun chiarimento, ma minerebbe invece l’aura surreale che circonda la figura.
Una nota anche sull’unico altro ambiente che funge da setting, ovvero il diner che fa da teatro alle scene d’apertura e di chiusura. Il diner fa parte della cultura americana tanto quanto la radio e il vaudeville, con la sua atmosfera un po’ “cheap”, ma in qualche modo accogliente e familiare. Tanto per intenderci, il posto dove si va per mangiare un boccone caldo a poco prezzo e dove si chiama la cameriera per nome. Un’istituzione che resta parte integrante del mondo yankee, oggi come settant’anni fa, e contribuisce quindi a rinforzare quello che è uno dei pregi principali di questo film – la capacità di trasmettere un’anima americana senza tempo, tanto che, non fosse per alcuni particolari illuminanti (i cd, la scena finale, qualche altra allusione), si potrebbe tranquillamente pensare di stare guardando un film ambientato negli anni Trenta. I costumi di scena, le luci e i colori sono stati scelti ad hoc per trasmettere una sensazione che ben si accompagna al mondo radiofonico, quello che forse più d’ogni altro medium permette di promuovere i valori dell’America di un tempo.
La radio ha costituito il primo, fondamentale elemento di coesione negli Stati Uniti della prima metà del secolo scorso, una nazione che negli anni Trenta sentiva più che mai il bisogno di far fronte comune contro la grande crisi della Depressione. Ancor più che in Italia le famiglie rinunciavano magari a parte del mobilio per procurarsi un apparecchio radiofonico (che nel 1939 troneggiava in ben 28 milioni di abitazioni yankee). La popolazione ammutolita dalla miseria e dall’incertezza trovava conforto nella voce amica, che fosse quella del presidente Roosevelt che pronunciava alcuni fra i più bei discorsi presidenziali della storia o quella delle mille figure che emersero all’epoca come una sorta di vocational trainer – voci calde e rassicuranti che sapevano divertire e cullare, ma anche infondere ottimismo, speranza e amore per l’ideale americano.
Radio America riprende esattamente questa sensazione, scattando un’istantanea corale di personaggi che è facile immaginare come presenze costanti della cultura popolare e della vita quotidiana della popolazione statunitense. L’appeal delle canzoni folk (fortunatamente lasciate in lingua originale e sottotitolate) funge da cassa di risonanza per l’effetto coesivo, sfruttando una componente nostalgica ai limiti della religiosità di sicura presa su un’America che credeva (e, nel suo intimo, crede ancora) alla famiglia, alla terra d’origine, all’affetto puro. Naturalmente bisogna tener presente che si tratta di Altman e, per l’appunto, dell'”America Oggi”, e quindi non bisogna aver troppa fede in una bacchetta magica à la Walt Disney. Ma anche mentre confuta e deride la sua stessa spinta a tener alto lo stendardo dello spettacolo, il film compie esattamente quell’azione di esorcismo che nella sua pragmatica semplicità (“Io non faccio elogi funebri”, dichiara semplicemente G.K.) permette di far traspirare, attraverso il velo di tristezza e di senso di fine di un’epoca, un disincantato ma pur sempre fondamentale anelito di speranza.
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Chiara C. | ||
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