EditorialediGiampiero Raganelli,25 Febbraio 2017
Berlinale 2017, luci e ombre
Vincitori e vinti in concorso al Festival di Berlino e trionfo di Guadagnino
Si chiude il sipario sulla prima grande manifestazione cinematografica dell’anno, la Berlinale 2017. E la parola sipario non ha solo un senso metaforico: più di una delle grandi sale berlinesi, ivi compresa quella immensa del Kino International – tra le più belle sale d’Europa, orgoglio dell’architettura della Berlino Est – è dotata di grandi e maestosi drappi che si aprono sullo schermo prima della proiezione. Come a teatro e come nelle sale di una volta. Un tocco di romanticismo che piace molto ad Aki Kaurismäki, il regista finlandese che amava far iniziare i suoi film con scene di aperture, in modo da simulare questa sensazione rétro, ormai andata perduta.
Kaurismäki era il grande favorito del concorso con il suo quanto mai poetico The Other Side of Hope, film in cui l’umanità del regista, il suo stare dalla parte degli ultimi, lo ha portato a occuparsi della più grande tragedia contemporanea, quella dei profughi siriani. Il film racconta di uno di questi non lesinando una forte carica caustica contro l’indifferenza e il cinismo della società. Kaurismäki però non ha guadagnato l’ambito plantigrado d’oro, e ha manifestato il suo sdegno con la scenata di non salire sul palco facendosi consegnare il premio ricevuto, l’Orso d’argento per la miglior regia, direttamente in platea. La giuria presieduta da Paul Verhoeven ha preferito far trionfare un film pure straordinario, On Body and Soul dell‘ungherese Ildikó Enyedi, delicatissima commedia sentimentale su incontri amorosi onirici tra cervi e mattatoi. Poco condivisibili gli altri awards, tra cui l’Orso d’argento a Spoor di Agnieszka Holland, regista che avrebbe meritato l’interdizione dopo Il giardino segreto.
Il concorso è stato complessivamente debole, ma le punte ci sono state. Quella del sudcoreano Hong Sangsoo con On the Beach at Night Alone, ennesimo capitolo del regista nella sua vivisezione dei rapporto uomo-donna che qui arriva a mettere in scena la sua storia d’amore con un’attrice, che interpreta se stessa (e che a Berlino è stata laureata migliore attrice), che ha generato scalpore in patria in quanto relazione adulterina. E poi il bellissimo Colo – rimasto a bocca asciutta purtroppo – della portoghese Teresa Villaverde, ritratto di una famiglia borghese in declino economico, albergata da solitudini, nello stile contemplativo della cineasta.
Ma Berlino non è solo, ovviamente, il concorso. Con tutte le sezioni collaterali la manifestazione raggiunge un volume esorbitante di opere presentate, come testimonia il sempre intricato programma, in cui non è immediato orientarsi. Non è per nazionalismo o patriottismo – peraltro il regista finora ci aveva convinti solo a tratti – che dobbiamo segnalare il grande successo dell’italiano Luca Guadagnino con il suo Call Me by Your Name, nella sezione Panorama Special, già presentato in anteprima al Sundance. Un grande risultato anzitutto di pubblico: alcune delle cinque proiezioni sono andate subito in ‘sold out’, anche nelle capienti sale berlinesi. Il film ci porta negli anni Ottanta per raccontare un delicato e sentito ‘coming of age’, la storia di un flirt estivo, immersi nell’afa e nel frinire delle cicale in una dimora di campagna, tra un ragazzo diciassettenne e l’affascinante assistente americano del padre. Proprio quando abbiamo una paura fottuta del suo remake ‘sacrilego’ di Suspiria, Guadagnino ha saputo spiazzarci.