Venezia 72: Tharlo e altre recensioni
Il tema dell’identità sembra in un certo senso accomunare due film di Venezia 72 completamente diversi per stile e contenuto: Tharlo di Pema Tseden e The Danish Girl di Tom Hooper.
Il film di Tseden ha come protagonista un tranquillo pastore tibetano che, sceso in città per registrarsi all’anagrafe, viene sedotto da una giovane parrucchiera che gli sconvolgerà la vita. Attraverso la vicenda di Tharlo, un uomo semplice che vede il proprio mondo bucolico disgregarsi e i propri arcaici valori crollare in seguito all’impatto con una parvenza, seppur rudimentale, di civiltà, il regista allestisce una metafora della perdita di identità etnico-culturale del popolo tibetano, in cui anche il gesto più banale può assumere significati ben oltre l’apparenza. Girato in bianco e nero e quasi tutto con inquadrature fisse, nelle quali il protagonista è sempre presente ma spesso spettatore o soggetto passivo delle azioni altrui (scelta che ne sottolinea lo spaesamento e il senso di inadeguatezza), e scandito da un ritmo lentissimo ma privo di vuoti e funzionale alla storia, con sprazzi di umorismo lunare che alleggerisce il pessimismo di fondo, Tharlo è un pregevole esempio di cinema duro e puro, attento ai dettagli, con un utilizzo magistrale delle immagini (memorabile la scena della coppia di sposi dal fotografo, che anticipa in un certo senso l’andamento della vicenda) e del sonoro, e dialoghi ricchi di contenuto anche se, talvolta, al limite del didascalico. Ottima la prova del protagonista, il poeta e musicista Shide Nyma, sia quando recita a memoria i discorsi di Mao Zedong che quando intona canzoni di montagna.
Si parla invece di identità sessuale, prima negata e poi conquistata, gradualmente e a prezzo altissimo, in uno dei titoli più commerciali del concorso veneziano, The Danish Girl di Tom Hooper. È la biografia di Lili Elbe, la prima transessuale della storia, dalla scoperta delle proprie inclinazioni quando era un uomo, il pittore Einar Wegener, agli anni del travestitismo, fino agli interventi chirurgici. Un biopic senza dubbio accattivante, in cui è facile simpatizzare per il protagonista, che viene a conoscenza del proprio lato femminile in maniera quasi casuale, ma decide di andare fino in fondo, considerandola una maturazione del tutto naturale. Nonostante la confezione sontuosa, in cui la regia pittorica di Tom Hooper dipinge l’ambientazione nell’Europa tra le due guerre con la stessa raffinatezza dei quadri di Einar, rimane l’impressione che si tratti di un’opera un po’ accademica e soprattutto semplicistica, in cui non viene dato adeguato spazio alla dimensione conflittuale della vicenda, rendendo troppo facile schierarsi con Lili e tifare per lei, ma senza riflettere sul suo tormento interiore e sulle conseguenze delle sue scelte. Questo a prescindere dai meriti di Eddie Redmayne, che interpreta la trasformazione di Einar in Lili in maniera impeccabile, sfiorando quelle corde emotive che la sceneggiatura, nella sua eccessiva ruffianeria, non riesce a toccare. Cinema da Oscar, ma non da Leone d’oro.