Il cileno Pablo Larrain chiude la trilogia dedicata al regime di Pinochet e agli effetti avuti sul Cile e sui cileni con No: i giorni dell’arcobaleno, dove viene raccontata la campagna pubblicitaria a sostegno del “No” al referendum che nel 1988 è stato il primo decisivo passo della caduta di Pinochet. I cileni erano chiamati a esprimere la loro volontà sul confermare o meno per altri otto anni il generale al governo, in una consultazione voluta e richiesta dalla comunità internazionale. Il fronte del “no” partiva svantaggiato e scoraggiato, tanto che gli stessi leader politici dell’opposizione non pensavano minimamente alla possibilità della vittoria, cercando piuttosto di cogliere l’occasione per rendere note le sparizioni, le torture e le uccisioni. A cambiare le carte in tavola, l’arrivo di un giovane pubblicitario (Gael Garcia Bernal), il quale punta su una campagna moderna, allegra e colorata (Chile, l’alegria ya viene era il titolo), ottenendo il legittimo e comprensibile rifiuto dei più radicali e di chi più è stato colpito personalmente dai crimini della dittatura ma dando allo stesso tempo speranza e carica alla popolazione e alla fascia degli indecisi, colpiti e convinti dal messaggio d’ottimismo.

Il giovane protagonista lavora sulla campagna parallelamente alla sua vecchia occupazione di pubblicitario all’ordine di Lucho (Alfredo Castro), convinto sostenitore del generale e, da un certo punto in poi, responsabile della campagna per il sì. Archiviato il referendum , i due, dopo tensioni e minacce, continueranno a lavorare insieme come se nulla fosse stato.

No: i giorni dell’arcobaleno presenta alcune importanti differenze dai due precedenti film della trilogia, Tony Manero e Post Mortem: innanzitutto una costruzione narrativa sotto certi aspetti più tradizionale, nel rapporto causa-effetti e nella gestione dei conflitti, così come nel climax drammaturgico, ma soprattutto il fatto che la realtà politica è chiaramente presente ed esposta in primo piano. Nei due film precedenti, infatti, la dittatura agiva nel fuori campo, dal bordo dell’inquadratura e negli accenni dei dialoghi, assomigliando alle entità maligne di alcuni romanzi di Stephen King che agiscono in modo decisivo ma quasi impercettibile sui protagonisti, che si sa che esistono ma le si vede poco e solo di sfuggita. Qui invece il lumicino non è direttamente puntato sulla mediocrità della maggioranza silenziosa, sull’assenza morale ed emotiva di cui le dittature sono allo stesso tempo cause ed effetti, di cui i protagonisti dei film precedenti, entrambi perfettamente interpretati da Alfredo Castro, sono esempi emblematici e potenti, in particolare quello del capolavoro Post Mortem.

Qui si racconta la genesi e l’evoluzione di quella campagna pubblicitaria, di cui continuamente vediamo gli spezzoni alternarsi alla narrazione (allegri e colorati i primi, sgranati e iper-realisti fino all’apparente assenza di uno stile della fotografia i secondi), così come vediamo le tensioni e le minacce attuate dal regime e dai suoi sostenitori, l’atmosfera di palpabile tensione e i rapporti personali messi in discussione. Naturalmente, raccontando di una delle ragioni fondamentali della fine di Pinochet, la vicenda “finisce bene”, ma a ben vedere il lieto fine del film non è poi così totalmente felice, soprattutto se paragonato al “lieto fine” della Storia con la S maiuscola. Ce lo fa capire il formidabile primo piano del protagonista con cui si conclude il film, che si ricollega agli altrettanto incisivi primi piani finali dei due film precedenti. L’attenzione posta sul suo sguardo può suggerire la presa di coscienza del protagonista, ma soprattutto la sua consapevolezza che in realtà le cose nella sostanza non stanno cambiando, e che la sua presa di coscienza è, al momento, in fin dei conti inutile. Questo anche perché il giovane e talentuoso pubblicitario sta presentando il lancio di una nuova telenovela insieme al collega già avversario nel fronte governativo del sì, e lo fa usando le identiche parole usate per lanciare la campagna del “no”. Come dire che una telenovela, una bibita e una campagna politica fondamentale per la libertà hanno gli stessi effetti e vanno trattate allo stesso modo, eliminando le asperità e nascondendo le problematiche. Importante in questa chiave di lettura è l’evoluzione del rapporto con Lucho, all’insegna di una continuità che non tiene conto di minacce e tensioni, che crea un ponte tra il prima e il dopo referendum, esemplificata a livello stilistico dalla scelta di riprendere molti dialoghi tra i due senza dare coerenza e continuità ambientali e temporali.

La vittoria delle opposizioni, perciò, non appare tanto e solo come il frutto di uno sdegno e di una reale convinzione politica, ma piuttosto come una merce ben venduta, in un discorso che il regista non sembra condannare totalmente, ma comunque sostenere solo in parte, evidenziando anche le continuità sostanziali e le stesse problematiche ideali e culturali già personificate dai personaggi delle opere precedenti . La vittoria del “no” è quindi in un certo modo la faccia buona della stessa medaglia dell’ossessione delirante e vuota del protagonista di Tony Manero.

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Scritto da Edoardo Peretti.