Qualcosa nell’aria: la recensione
Qualcosa nell’aria – Après Mai di Olivier Assayas non è un film sul ’68, sull’evoluzione che il movimento ebbe nei primi anni 70, il moltiplicarsi delle fazioni, la recrudescenza della repressione con l’istituzione delle squadre speciali, i contrasti tra movimento studentesco ed operaio, la deriva terroristica. Lo scenario politico e sociale di quegli anni, già sfondo di L’eau froide, è per Assayas soltanto il livello più superficiale di uno spazio del ricordo autobiografico e collettivo che, nella sua complessità e ricchezza di stimoli, svela contrasti più radicali e universali di quelli suggeriti dalla semplice contingenza degli eventi.
Contrasti incarnati da un gruppo di liceali della periferia parigina, uniti in una lotta fattasi ancora più cruenta dopo la manifestazione filo-maoista del febbraio ’71 e il grave ferimento di uno dei partecipanti, un ragazzo di 24 anni colpito in pieno volto da una granata fumogena. Per evitare il coinvolgimento nelle accuse di aggressione a un celerino, il protagonista, Gilles, parte per l’Italia insieme a Christine e ad Alain e ad un collettivo di cineasti che realizza documentari agit-prop vicini agli ideali della Rivoluzione Culturale Cinese. Finiranno per prendere strade completamente diverse tra loro.
Questa la storia, tra partenze e ritorni, vecchi e nuovi amori, decisioni da prendere per il futuro. Ma sotto la linearità del tessuto narrativo si aprono voragini di pensiero: il rapporto tra vita e politica e tra politica e arte, il discorso metacinematografico sullo stile, lo scontro generazionale, la ricerca d’identità, le spinte anarco-individualiste contrapposte a quelle collettivistiche. E ad essere straordinaria è soprattutto la complessità e puntualità di riferimenti filosofici, letterari, artistici e musicali che accompagnano e arricchiscono la visione. Così l’indole libertaria di Gilles, la voglia di costruire un percorso di vita unico e originale, lontano dall’eredità dei padri quanto dal pensiero a senso unico dei compagni più ideologizzati, ci viene presentata sin dalle prime scene, con quella A incisa sul banco, il riferimento a Stirner, i dipinti astratti realizzati col sottofondo musicale del cappellaio matto Syd Barrett.
I due poli d’attrazione tra cui oscillare, idealmente e fisicamente, sono Laure e Christine, la prima ricca borghese colta e dolente dalle tendenze distruttive e nichiliste (e qui la colonna sonora trova un ideale contrappunto musicale nell’ipnotica Know di Nick Drake), la seconda giovane militante in cerca di una dimensione collettiva in cui riconoscersi e confondersi, un mimetismo rassicurante quanto frustrante, come dimostra la rottura finale col gruppo. Con Laure, Gilles legge le poesie di Gregory Corso, abbraccia l’idea di una gioventù che rompe col passato e rivendica la propria unicità creativa e rivoluzionaria: “I HATE OLD POETMAN/[…]who speak their youth in whispers saying – I did those than but that was then that was then..” Da Christine, pur vicina a lui nell’impegno politico, si allontana per seguire la propria idea di arte, inconciliabile con quella del collettivo.
E qui si inserisce il discorso metacinematografico sullo stile registico, su cosa sia genuinamente rivoluzionario e cosa ascrivibile all’estetismo fine a se stesso. Rispondendo con le parole dello stesso Assayas, “La funzione propagandistica dell’arte è un inganno“, e ancora “L’arte deve preservare le contraddizioni del mondo“. E la regia scarna ed essenziale di Après Mai lo dimostra, lasciando allo spettatore ogni responsabilità interpretativa su quanto mostrato. Allo stesso modo Gilles, in fuga da quel “cinema noioso” e da quella “politica rozza”, torna in Francia per continuare il suo percorso con ancora maggiore decisione, libero da ogni vincolo: si iscrive all’Accademia, fa della sua arte uno strumento eclettico e non dogmatico, si confronta con l’amico Alain, vicino a lui per interessi e posizioni, legge Debord, rifiuta i lavori offertogli dal padre produttore, si mette alla prova sul set di improbabili film fantascientifici. Ma anche da quel set, alla fine, si allontana, ombra proiettata sul fondale. Come si allontana Alain, forse in viaggio per Kabul e la sua ragazza Leslie, decisa a tornate a New York e ad una vita più rassicurante e regolare. Si allontana anche Christine, libera dal legame col collettivo ma senza casa e senza Gilles ad attenderla. Tutti ostinatamente alla ricerca di una vita che è sempre e comunque altrove.
Scritto da Barbara Nazzari.
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Chiara C. | Davide V. | Giusy P. | ||
7 | 7 | 6 |
In questo campo credo proprio che tu sappia muoverti meglio di me… Forse io sono abituato a un tipo di racconto più puntuale, meno impressionistico, e il discorso su arte e politica mi appassiona meno, da vero figlio di un’epoca, se non nichilista, almeno individualista. E in questo senso, il personaggio di Gilles, con il suo spirito libero, mi piace, soprattutto per come smonta le convinzioni ottuse di Christine (personaggio antipaticissimo). E’ il distacco emotivo dimostrato in ogni situazione a irritarmi un po’, specialmente nel rapporto col padre, troppo basato su un muro contro muro privo di sfumature.
Ad ogni modo, anch’io adoro il confronto, arricchisce sempre! 🙂
Quanti spunti Davide, bisognerebbe parlarne per settimane!
Comunque sì, la descrizione – e maturazione – di alcuni personaggi può risultare superficiale o confusa;
Io l’ho intesa impressionistica, fatta di rapide pennellate, multiforme, impalpabile ma – se vista da lontano – estremamente coerente. Per esempio la figura di Alain, come giustamente sottolinei tu, meritava forse maggiore approfondimento. Ma poi bastano 2 minuti di dialogo su un libro di Majakovskij e in un attimo si delinea una vicinanza, un percorso comune, una traiettoria. E ogni cosa in più sembra superflua.
Poi, lo ammetto, il discorso su arte e politica mi coinvolge molto e l’aver privilegiato sin da subito questa chiave di lettura può aver condizionato la visione e la rappresentazione mentale che mi sono fatta del film stesso. Per questo il confronto è tanto più prezioso 🙂
Devo dire che la tua recensione, Barbara, mi ha fatto comprendere e apprezzare di più il film, che lì per lì mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca. Anch’io, come Chiara, ho faticato a provare empatia per i personaggi, anzi, li ho trovati abbastanza sgradevoli, e le loro scelte mi sono sembrate lontanissime da quanto mi aspettavo dopo aver visto e ascoltato di tutto su quel periodo.
Col senno di poi, credo che questo sia per certi versi il pregio di Assayas: oltre a una convincente ricostruzione dei fermenti artistico-culturali, più che politici, del tempo, anzi, del rapporto solo apparentemente idilliaco fra arte e politica, trovo apprezzabile la scelta di esprimere più punti di vista sull’argomento (anche se il regista si identifica con Gilles) attraverso i percorsi dei vari personaggi, e di mostrare anche i lati negativi della cultura del tempo, evitando quindi di cadere nell’agiografia, nel manicheismo o nella nostalgia acritica (caratteristiche, queste ultime, in cui era incappato a mio avviso Bertolucci con The Dreamers).
Non tutti i caratteri, però, sono ben sviluppati (ho trovato molto carente il personaggio di Alain), e l’evoluzione del protagonista avviene secondo me in maniera esageratamente confusa e sfumata (certo, il caos era una caratteristica culturale di quell’epoca, però il personaggio di Gilles, con il suo rifiuto di fare i conti con la realtà, come dice egli stesso nei dialoghi, mi sembra fin troppo programmatico nella sua inquietudine, poco spontaneo).
Troppo negativi gli adulti, di volta in volta aridi, dispotici, ottusi o semplicemente inesistenti: non avendo vissuto quell’epoca non so se la distanza generazionale fosse davvero così marcata, ma nel film mi sembra eccessiva.
Non mi meraviglia, invece, il fatto che tutti i protagonisti siano borghesi, dato che, almeno in Europa, il movimento studentesco era composto prevalentemente da borghesi: nel film, però, sembrano più che altro figli di papà che giocano alla rivoluzione per noia, e il distacco emotivo che dimostrano di volta in volta diventa un limite.
Nella loro ingenuità un po’ naif, gli studenti di Fragole e sangue, che cantano Give Peace A Chance e vengono pestati a morte dalla polizia, risultano meno complessi sul piano culturale, ma sicuramente più simpatici e forse anche più sinceri.
Capisco possa fare questo effetto ma a me è piaciuto proprio per l’onestà con cui vengono presentati comportamenti e posizioni, senza velo nostalgico o idealizzante ma semplicemente mostrando le potenzialità che la stagione ha avuto in termini di evoluzione del pensiero, slancio creativo, disvelamento di contraddizioni insanabili. Il punto di vista è quello di Gilles/Assayas, quello borghese, come borghese è, volendo, tutto il discorso sull’arte e sui linguaggi, e lo spettatore stesso che guarda Après Mai e si interroga su questi aspetti. E’ una vexata quaestio e temo che questa contraddizione vada data per scontata nella maggior parte dei film che guardiamo (non che non ci si debba interrogare ancora e ancora sulla cosa ma, partendo da queste premesse, non dovrebbe influire troppo sul giudizio, soprattutto se c’è molto altro su cui concentrarsi)
Vedere questo film e le reazioni di chi era con me mi ha fatto riflettere su quanto il disincanto/il vissuto della mia generazione può influenzare la percezione di certi atteggiamenti e comportamenti, che oggi è facile bollare come falsamente liberatori o stereotipati. In generale infastidisce il fatto che i protagonisti sono tutti più o meno borghesi (nemmeno Christine è di bassa estrazione sociale, se come lei stessa afferma suo padre fa il ricercatore e indaga sul nucleare). E in effetti ecco, anch’io mi sono trovata a provare poca empatia nei confronti dei personaggi, e a farmi delle domande (e quasi a sentirmi in colpa) per questo.
Molto interessante il discorso sul ruolo politico del linguaggio cinematografico, e in genere il percorso artistico di Gilles, come hai sottolineato nella recensione.