Argo: la recensione
Argo di Ben Affleck. Nel aprile del 1979 a Teheran la folla inferocita invase l’ambasciata americana, tenendo in ostaggio una cinquantina di funzionari e diplomatici per più di un anno. Motivo della protesta, legata al neonato regime islamico/conservatore che ha seguito il sanguinario regime dello Scià appoggiato dagli Stati Uniti, è stata la mancata estradizione dello stesso Scià, rifugiatosi negli States malato di cancro. Un gruppo di sei funzionari riuscì a fuggire, trovando rifugio nella residenza dell’ambasciatore canadese. La liberazione dei sei avvenne dopo qualche mese grazie ad una fantasiosa operazione della Cia, rimasta segreta fino alla presidenza Clinton. Questa operazione è raccontata dalla terza fatica dietro la macchina da presa di Ben Affleck, il quale conferma di essere un signor regista ed uno dei più adeguati eredi di un certo tipo di grande cinema americano, quello capace di unire più chiavi di lettura alle capacità spettacolari di immediato divertimento.
Argo è il titolo del film di fantascienza che ha funzionato da copertura per la liberazione dei sei ostaggi: i sei hanno finto di essere membri della troupe giunta a Teheran per sopralluoghi, guidati da un agente dell’intelligence (interpretato dalla stesso Affleck) nel ruolo di produttore. Per rendere credibile la copertura della missione ai limiti dell’impossibile, la <<migliore cattiva idea venuta per liberare gli ostaggi>>, la pre-produzione del film è avvenuta fin nei minimi particolari grazie alla collaborazione di un importante costumista e di un grande regista in decadenza (interpretati dagli ottimi John Goodman e Alan Arkin).
Ispirato quindi a una storia vera che allo stesso tempo può apparire paradossale, una di quelle per cui il modo di dire ‘sembra un film’ è calzante, Argo gioca sul doppio livello di realtà e finzione e dei loro intrecci: realtà e finzione si mescolano nella vicenda raccontata così come nella costruzione del film. Oltre agli ironici paragoni tra Hollywood e la politica americana, espressi soprattutto con battute nella parte centrale, la realtà dei fatti e della Storia entra continuamente nell’intreccio: questo è evidente fin dai titoli di testa, riassuntivi delle vicende che hanno portato alla ‘rivoluzione iraniana’, con disegni che significativamente si trasformano in fotografie, continua attraverso i frequenti inserti di tg e programmi dell’epoca (con la televisione come personaggio ricorrente), dei discorsi e dei proclami statunitensi e iraniani e attraverso la riproduzione fedele di immagini emblematiche della vicenda (come la famosa foto degli impiccati alle gru nelle strade di Teheran). C’è una scena emblematica, oltreché bellissima, al riguardo: quando al momento della lettura pubblica del copione le voci degli attori, già con i costumi addosso, si sovrappongono a quella di un’attivista iraniana che spiega le ragioni dell’astio verso gli Usa, in una scena magistralmente sorretta dal montaggio alternato visivo e sonoro.
Queste riflessioni e tematiche sono sorrette da un solidissimo impianto di spy story misto a film di guerra, attraversato da squarci di commedia e di film politico alla ‘New Hollywood, in cui in più di un’occasione le angosce dei sei ostaggi sono adeguatamente esemplificate dal ricorso alle armi del ‘genere’. Ottima, e anche migliorata rispetto al buonissimo The Town, è la capacità di giocare con gli stereotipi senza rimanerne intrappolati, così come contribuiscono alla riuscita le facce scolpite e le prove dei caratteristi (oltre a Goodman e ad Arkin, ricordiamo Bryan Cranston e Victor Garber). Tra le tante scene meritevoli, un pezzo di grande cinema sono i venti minuti della fuga finale, uno dei momenti di più genuina tensione del cinema americano degli ultimi anni, tutto giocato sul montaggio alternato tra gli ostaggi in fuga, le indagini degli iraniani vicini alla verità e le azioni di copertura a Washington. Anche solo per questo, Argo merita il prezzo del biglietto fino all’ultimo centesimo.
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Alice C. | Antonio M. | Chiara C. | Davide V. | Giusy P. | ||
8 | 7 | 8 | 7 | 7 |
Scritto da Edoardo Peretti.
Sono rimasta colpita dalla solidità del film, dall’abilità di Affleck nel muoversi tra toni diversi e nel raccontare una vicenda a rischio filo-americanismo spinto riuscendo a tenersi quasi sempre ben lontano dalla retorica. La regia poi mi è sembrata davvero bellissima.