Il discorso del re: la recensione
1925. Il principe Albert (Colin Firth), duca di York, figlio di re George V d’Inghilterra (Michael Gambon), Bertie per i familiari, è predestinato per dovere di sangue ad una vita fatta di incontri ufficiali e discorsi in pubblico. C’è un unico, insormontabile problema: balbetta irrimediabilmente e, in conseguenza di ciò, parlare in pubblico lo terrorizza. A nulla servono i più qualificati specialisti, solo un eccentrico logopedista australiano, Lionel Logue (Geoffrey Rush), scovato dalla devota moglie Elizabeth (Helena Bohnam-Carter), può tentare di risolvere il problema; ma si scontra con lo strenuo ostracismo di Bertie, contrario ad ogni tentativo di andare oltre la mera “meccanica” del difetto.
1936. Quando si ritrova suo malgrado a dover salire sul trono, dopo che l’irresponsabile fratello David (Guy Pierce), o meglio Edward VIII, ha abdicato per amore della pluridivorziata Wallis Simpson (Eve Best), Bertie non può fare altro che affidarsi ancora a Logue, perché un Re non è degno se non può parlare al suo popolo, soprattutto quando lo sta conducendo alla guerra contro Hitler e la Germania nazista.
[nota: questo articolo si basa sulla visione del film in versione originale, caldamente consigliata per godere appieno delle interpretazioni superlative degli attori.]
Non è facile avere a che fare con i film che parlano di teste coronate. Il rischio noia mortale è sempre in agguato, ma sappiamo che, quando provengono dalle mani giuste (The Queen, per fare un esempio), possiamo trovarci di fronte a pellicole che vanno ben oltre il mero biopic, e che riescono a bilanciare la Storia e le storie raccontando di personaggi umani e pieni di difetti come tutti noi.
Il discorso del re è uno di questi. Diretto da Tom Hooper e scritto da David Seidler, in parte sulla base della propria esperienza di balbuziente come il principe, il film è coprodotto dalle indipendenti Momentum Pictures (GB) e Weinstein Company (USA); dunque un “piccolo” film, reso gigantesco dall’interpretazione degli attori principali, Colin Firth e Geoffrey Rush, supportati da un’altrettanto brava Helena Bohnam Carter, perfetta nel ruolo della materna e risoluta Elizabeth (che è poi la madre dell’attuale Queen Elizabeth II, qua in versione bimba). Girato per la maggior parte in interni, salvo pochi passaggi nella nebbia londinese, è un film sapientemente “parlato”, con una macchina da presa ancorata al principe quando deve andare ad “affrontare la scena” e che si sdoppia invece alla pari quando la scena è condivisa da lui e Lionel. I loro duetti sono chiaramente le parti migliori e più godibili: le dosi di humor e dramma sono in perfetto equilibrio, dai primi incontri/scontri, agli esilaranti esercizi “meccanici” per la voce, alle sequenze più intime in cui si costruisce e si smonta continuamente il difficile rapporto di fiducia tra i due. Il bambino infelice che dimora in Bertie si rivela esplicitamente quando si confida giocando con gli aeroplanini dei figli di Logue; ma non c’è la minima ombra di patetismo, proprio perché Lionel fa da contraltare al bizzoso principe, trattandolo esattamente come un bambino scontroso e insicuro, che ha bisogno di compagni di giochi e, ogni tanto, di rompere la gabbia di buone maniere in cui è stato costretto (in tal senso, riuscitissima la sequenza delle parolacce ripetute da Bertie, in una crescente perdita del controllo che diverte molto Lionel).
Un montaggio e una sceneggiatura impeccabili fanno il resto: i dettagli della vita dei due protagonisti emergono in modo naturale sia dai momenti di confronto terapeutico che da quelli di intimità familiare, in cui si tracciano chiare similitudini tra loro (il rapporto sereno e a tratti scherzoso con le rispettive consorti, il gioco e lo svago con i figli). E il filo rosso della radio, che apre e chiude il film, causa e risoluzione della crisi di Albert, ci parla di una generazione di potenti che deve fare i conti con l’uso dei nuovi media per non diventare definitivamente obsoleta. Così la prova finale da superare sarà il discorso alla radio in occasione della Seconda Guerra Mondiale, in cui Giorgio VI dovrà convincere il suo popolo della necessità e dell’ineluttabilità della guerra in cui si è imbarcato.
In definitiva un film che certo ha poco o nulla di innovativo, ma che è classicamente bello e praticamente senza difetti (forse pecca appena appena nella costruzione un po’ stereotipata dei personaggi secondari, come Winston Churchill, o Wallis Simpson); rimane l’impressione che senza i tre attori di grande calibro sopra citati sarebbe valso molto meno, e che quindi le dodici potenziali statuette per cui è candidato dovrebbero andare tutte a loro.
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Scritto da Chiara Checcaglini.
Complimenti per l’analisi dettagliata e puntuale! Non vedo l’ora di gustarmelo (in v.o. ovviamente), adoro tutti i protagonisti (e anche Michael Gambon, che ho visto a teatro a Londra… spettacolare) e sono sicura che uscirò dalla sala soddisfatta!